10 miliardi, questa la popolazione mondiale che si stima per il 2050. A tutte queste persone – sarà ovvia una crescita esponenziale della domanda di derrate alimentari -, si dovrà assicurare l’accesso ad una alimentazione adeguata e sana. Sarà necessario quindi non solo incrementare le rese degli attuali terreni agricoli, ma metterne a coltivazione di nuovi.
Secondo le stime del World Resources Institute, nei prossimi 30 anni dovranno essere messi a produzione altri 590 milioni di ettari, i quali si vanno ad aggiungere agli 1,6 miliardi di ettari attualmente coltivati; ciò significa che da qui al 2050 la SAU globale dovrà crescere del 37%. È una sfida estremamente impegnativa, non solo per la grande estensione dei terreni che devono entrare nel ciclo produttivo, ma anche perché molti di quelli attualmente in uso sono soggetti a degrado e rischiano pertanto di uscirne.
Il tema, di grande rilievo per la sicurezza alimentare di miliardi di persone, è stato discusso nel corso del convegno “Territori sconfinati, piccoli poderi e orti urbani: tutte le tecnologie per ‘macro’ e ‘micro’ agricolture”, organizzato da FederUnacoma e svoltosi questa mattina sull’isola siracusana di Ortigia nel contesto degli eventi dell’”Expo Divinazione”.
Il 33% della superficie coltivata mondiale – è stato spiegato – è in condizioni di degrado moderato (8%) o elevato (25%) a causa della salinizzazione dei suoli, della perdita di sostanza organica, della desertificazione. Per fermare e invertire questo processo non ci si può affidare unicamente all’iniziativa degli imprenditori agricoli, ma è essenziale che i decisori pubblici sviluppino con urgenza adeguate politiche di sostegno. «Il problema interessa anche l’Italia. Il recupero delle terre degradate – ha detto Stefano Francia, presidente CIA Emilia Romagna, è fondamentale non soltanto a fini agricoli, ma anche per garantire la sicurezza idrogeologica dei nostri territori e per incentivare il turismo nelle aree rurali, che rappresenta una ulteriore, importante fonte di reddito per gli agricoltori». D’altro canto, è proprio la remuneratività delle attività agricola, condizionata da un gran numero di variabili, che finisce per disincentivare gli investimenti, anche nelle aree marginali. «Per questo è necessario prevedere strumenti di incentivazione pubblica che – ha aggiunto Francia – sostengano l’agricoltura nelle aree a rischio, territori nei quali sono richiesti macchinari specifici, altamente specializzati».
Dalle attrezzature per la minima lavorazione che preservano la sostanza organica dei terreni, alle mietitrebbiatrici autolivellanti capaci di lavorare su pendenze molto pronunciate, sino alle flotte di droni in grado di operare su terrazzamenti altrimenti inaccessibili, le industrie agromeccaniche italiane vantano una gamma di tecnologie estremamente diversificata, che si adatta anche alle esigenze di un’agricoltura “estrema”. «Progettare e realizzare mezzi meccanici che possano operare in condizioni così impegnative – ha spiegato il Responsabile Ufficio Tecnico FederUnacoma Davide Gensini – è una grande sfida costruttiva che le nostre industrie stanno vincendo grazie alla loro capacità di innovare e sviluppare soluzioni all’avanguardia, personalizzandole secondo le specifiche esigenze dei territori». «Droni, robot, applicazioni digitali evolute, ma non solo. La nuova frontiera – ha proseguito Gnesini – è quella rappresentata dalla meccanizzazione per le colture idroponiche ed aeroponiche». Emilia Arrabito, Direttore SVI.MED, ha parlato proprio di questo, presentando i risultati di un progetto relativo alla coltivazione di pomodori che ha interessato la Sicilia e la Tunisia. Sia l’idroponica che l’aeroponica sono coltivazioni fuori suolo nell’ambiente protetto di una serra, ha spiegato Arrabito; ma mentre nel primo caso la pianta riceve le sostanze nutritive per irrigazione, nel secondo le riceve per nebulizzazione. «Entrambi i metodi possono essere considerati come una possibile soluzione al problema della riduzione della fertilità del suolo e alla necessità di ottimizzare l’uso delle risorse, poiché – ha concluso – oltre a ridurre il consumo di terreno, queste particolari tipologie di coltivazione ci hanno permesso anche di tagliare del 35% i consumi di acqua nonché l’impiego di fertilizzanti e di trattamenti fitosanitari»
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